“AMBIENTE DI O PER L’APPRENDIMENTO?”

“Ambiente di apprendimento” e “ambiente per l’apprendimento” hanno significati diversi e rimandano a teorie della mente contrastanti.

Non è mia intenzione soffermarmi sugli aspetti pedagogici ampiamente trattati nei saggi, negli articoli cartacei e on-line e nei corsi di formazione sull’ambiente, ma piuttosto portare l’argomentazione “ab imis” per comprendere l’impianto teorico alla base di queste due espressioni solo apparentemente simili tra loro.

La definizione “ambiente di apprendimento” riconduce principalmente (ma non solo) alla teoria della mente definita “culturalista” ed elaborata dallo psicologo canadese David Olson. Lo studioso, superando l’interpretazione naturalistica e maturazionista piagetiana dell’intelligenza, sostiene che le abilità cognitive sono originate dall’uso dei media nel contesto sociale di appartenenza. L’attività cognitiva pertanto è il risultato dell’incontro tra gli organi naturali (il cervello) e gli strumenti artificiali (oggetti, manufatti didattici, sistemi simbolici e tecnologici) inventati, trasformati e utilizzati nei vari contesti culturali, in primis nella scuola. Per Olson senza “protesi” tecnologiche e simboliche la mente umana sarebbe non solo sottosviluppata ma addirittura inesistente. Lo stesso Bruner, approdato al “culturalismo” agli inizi degli anni novanta, sottolinea che l’intelligenza resterebbe un ventaglio di pure potenzialità biologiche se non venisse attualizzata dalla partecipazione al patrimonio culturale della comunità.

La tesi dello psicologo canadese, già abbozzata nel saggio “Linguaggi, media e processi educativi” (Ed. Loescher, 1979 a cura di C. Pontecorvo), afferma che la scelta di una forma simbolica come la scrittura alfabetica di un medium (ad es. la videoscrittura con il computer) condiziona profondamente il messaggio. Questo vuol dire che i media non sono “trasparenti” e il loro uso determina la forma e il contenuto dei messaggi con cui finiscono per identificarsi. Per Olson le operazioni di pensiero sono “estroflesse” attraverso i media cioè esternate dal soggetto “nell’ambiente di apprendimento”. Tali processi si concretizzano in modo visibile e plastico sulla tela di un dipinto, in un prodotto artistico, sul pentagramma musicale, sul foglio del quaderno, sul monitor del tablet o della LIM. Di conseguenza le “operazioni mentali” non si realizzano nella testa dell’alunno ma diventano atti esecutivi prodotti dai, nei e grazie ai media.

Per i convinti sostenitori della teoria culturalista l’oggetto ingloba il soggetto e di conseguenza l’ambiente di apprendimento assurge per loro a “feticcio” pedagogico su cui concentrare l’intervento educativo al fine di stimolare indirettamente l’alunno sul piano della sua crescita cognitiva e relazionale. Tra il piano oggettivo-culturale e il soggetto viene a crearsi così una sorta di “isomorfismo” di genere e sostanza che apre al principio eliminativista nell’ambito delle teorie della mente e che trova il suo massimo esponente in Giovanni Federico Herbart, successore di Kant nel 1805 sulla cattedra di filosofia di Königsberg.

La reificazione dei media e della dimensione ontica della teoria “culturalista” contrasta con la teoria “fenomenologica” riconducibile al pensiero di E. Husserl e M. Heidegger che assegnano alla coscienza e all’intenzionalità dell’essere umano il compito di rapportarsi alla dimensione fattuale e quindi di interagire in modo attivo e consapevole con la realtà indipendentemente dagli strumenti tecnologici disponibili nel proprio ambiente. Secondo questo impianto teorico la scuola assume la funzione di “palestra” della mente dove rafforzare la dimensione interiore mediante attività disciplinari dirette alla stimolazione della struttura ontologica dell’alunno che è posto al centro di un curricolo definibile personologico e umanista. In questo senso si può parlare di “ambiente per l’apprendimento” cioè predisposto alla promozione delle “operazioni mentali” che non sono affatto estroflesse in modo indotto e spontaneo dall’alunno, ma vengono costruite, alimentate e sviluppate nella mente del soggetto ossia “si incarnano” nella sua persona come ama affermare in modo icastico e incisivo Maurice Merleau-Ponty nel suo saggio “Fenomenologia della percezione”.

Pertanto gli operatori scolastici dovrebbero essere ben consapevoli che dietro l’uso di preposizioni semplici come “di o per” si trovano teorie complesse della mente che talvolta confliggono tra loro e comunque finiscono per influenzare profondamente l’idea di scuola e di curricolo con le conseguenze pedagogico-didattiche dell’esaltazione dell’ambiente di apprendimento o della persona-alunno.

Pietro Sacchelli